Ruolo professionale e investimento nel lavoro
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Progettare un lavoro significa contemporaneamente progettare la propria vita. Per questo il fallimento del progetto trascina con se il fallimento dell’uomo.
Nella generazione di lavoratori che hanno iniziato, in questi anni, la seconda fase della loro carriera lavorativa, è consuetudine – presentandosi a qualcuno – anteporre il titolo o il ruolo professionale: “buongiorno, sono il dott…”, “piacere, ingegner…”, “salve, sono il geometra…”.
Come rileva l’antropologo contemporaneo Franco Fileni, i linguaggi definiscono le relazioni culturali e la loro evoluzione stabilisce nuove regole e cristallizza nuovi legami.
Le organizzazioni, nella cultura cristiano-illuministica della svolta calvinista pre-industriale, sono i luoghi dove l’individuo idealizza se stesso, dove progetta il proprio futuro che transita necessariamente attraverso la costruzione di un ruolo professionale e del valore economico che rappresenta, come criterio per il proprio posizionamento nella gerarchia sociale.
All’interno di questi vincoli culturali, il progetto di un lavoratore corrisponde al progetto di un uomo. Di conseguenze, il fallimento del progetto trascina con se il fallimento dell’uomo.
Nell’era dei nativi digitali tutto ciò sembra essere esautorato del suo valore originario. Il progetto umano e quello professionale non sono necessariamente collegati e più spesso il contratto psicologico è svilito del valore di investimento emotivo, della compliance nei confronti del lavoro e dell’opportunità di locomozione sociale (per utilizzare una terminologia cara a Lewin).
Si creano identità sospese in cui la reputazione sociale si definisce nella rete mediatica, piuttosto che nelle relazioni corporee. Pertanto il lavoro non è più medium di realizzazione di identità ma mero mezzo di sostentamento che può essere sostituito con altre modalità (il sostegno protettivo della famiglia, degli ammortizzatori economici, impieghi transitori…) e non richiede pertanto investimento emotivo.
Spesso l’uscita dall’università viene rimandato a lungo, a volte la stesura della tesi impegna più di un libro di Henry Darger. Poi il tempo ed i passaggi di vita vengono rarefatti fra stage e ruoli sottodimensionati.
L’assunzione di un ruolo professionale viene rimandato pertanto all’infinito e, una volta entrati in azienda, si cerca di svincolarsi dalle responsabilità e non si disdegnano periodi di alternanza fra lavoro e disoccupazione.
Molti, facendosi scudo della mancanza di opportunità, staccano un biglietto aereo e finiscono in qualche prateria australiana a raccogliere mirtilli; un modo come un altro per spostare ancora più in là nel calendario il momento in cui la responsabilità non potrà più essere differita.
Con un lavoro fisso – infatti - un assegno in tasca ogni mese, il mondo che finalmente si rivela con tutte le sue rigide regole e contemporaneamente il suo carico di responsabilità, il passaggio dall’età ingenua a quella adulta non potrà più essere rimandato, non ci saranno più alibi.
Certo, questa visione distorce in maniera categorica l’idea che a creare identità e ruoli professionali sospesi in un passaggio mai compiuto, grazie a riti evanescenti e cerimonie artificiose, sia la stessa organizzazione del lavoro e quella sociale, che non riconosce i meriti, non offre opportunità e non è interessata allo scambio di generazioni (il tasso di ricambio generazionale in Italia va oltre il 150%).
In realtà chi dispone di un angolo di osservazione previlegiato non può che constatare che le generazioni che si affacciano oggi alla vita adulta e al mercato lavorativo sono contemporaneamente vittime e carnefici, subiscono e contemporaneamente agiscono queste modificazioni traendone vantaggio proprio grazie al prolungare all’infinito l’età dell’adolescenza, creando per questo scopo identità con confini liquidi, transitori e reversibili.
Si potrebbe obiettare che la transizione religiosa culturale da ideali finalistici a quelli materialisti, strumentali alla rivoluzione industriale, aveva prodotto identità polarizzate sul tema del lavoro e su quest’altare le generazioni figlie del boom del dopoguerra avevano sacrificato la loro esistenza. Ma questo sacrificio ha lasciato sul territorio una rete di piccole imprese, metafore della famiglia allargata, il cui motore non è altro che l’investimento umano, oltre che professionale, emotivo e di auto-responsabilizzazione.
La posta in gioco, pertanto, non è soltanto il futuro di questi giovani ma dell’intero comparto economico più produttivo.
Articolo a cura del Dottor Luca Paolo Libanora
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